CASTELLINA DI QUINTO

Prime riflessioni riguardo l'assetto e la

fruizione della necropoli etrusca.

a cura di Daniele Gregori

 

Quando, in anni fertili per la ricerca archeologica nel territorio fiorentino, l'allora giovane ispettore archeologo F.  Nicosia intraprese una serie di campagne di scavo in località denominata Palastreto, lungo il versante di S. Lucia alla Castellina che domina il centro di Quinto Fiorentino non erano in molti a pensare che quella che ci si preparava a sondare fosse stata una delle più complesse e, probabilmente, più estese necropoli dell'intera Etruria Settentrionale e che le ripetute segnalazioni di ritrovamenti nella zona, per lo più legate alla recente apertura di una cava privata di pietra cementizia, potessero essere poste in relazione con qualcosa di più ampio ed organico di una serie di presenze a carattere episodico.

Molte delle ipotesi avanzate in seguito al lavoro di Nicosia, che parlavano già a favore dell'esistenza di un sepolcreto esteso forse per centinaia di metri lungo il versante collinare sovrastante le grandi tombe a "tholos" della bassa zona pedemontanma, hanno trovato conferma e sviluppo nelle cinque campagne di scavo che, per concessione della Soprintendenza Archeologica Toscana al Comune di Sesto Fiorentino, i volontari della Società Italiana di Archeologia Mediterranea di Firenze (S.I.A.M.) hanno portato avanti, nel corso della seconda metà degli anni '80, sotto la guida di chi scrive e ne sta curando l'imminente pubblicazione. Chi ci segue dovrà costantemente tenere presente che l'intera messe di dati di cui disponiamo ci consente oggi di formulare ipotesi forzatamente condizionate da due fattori imprescindibili che hanno costituito il principale naturale ostacolo alla nostra ricerca.

Di tali fattori il primo è da ricercarsi nell' "habitat" attuale della collina: al danno apportato dalla cava, che in pochi anni di attività divorò una larga porzione di necropoli, si deve aggiungere il fatto che l'intera articolazione collinare, andò soggetta, nei secoli scorsi, ad una massiccia trasformazione dei suoi livelli superficiali, a causa di ripetuti trapianti arborei e di pesanti interventi agricoli con la creazione di profonde e devastanti opere di terrazzamento; ciò ha drasticamente limitato la possibilità d'indagine alle sole aree risparmiate da tali ristrutturazioni, riducendo, così, sensibilmente la facoltà di estendere l'esplorazione archeologica in modo organico e razionale.

Il secondo fattore risiede nel fatto che nessuna delle quarantadue tombe a pozzetto ed a pozzo per cremati individuate con certezza tra il 1985 ed il 1989 ha restituito dati certi che permettano l'identificazione del corredo pertinente, nonché della parte superiore della struttura, in quanto i livelli superficiali della porzione di necropoli esplorata, attraverso i quali si sarebbero potuti riconoscere i criteri organizzativi e distributivi del sepolcreto, dovevano considerarsi, al momento dello scavo, completamente perduti: delle tombe appariva conservata solo la parte inferiore della struttura, ricavata nella roccia e coperta da uno strato pressoché omogeneo di terra, più o meno spesso, nel quale si trovavano, caoticamente dispersi, migliaia di frammenti pertinenti alle antiche deposizioni.

Ne consegue che le possibilità di determinare la cronologia delle singole tombe e di individuare i criteri di distribuzione mediante i quali esse furono disposte in senso spaziale e cronologico all'interno del sepolcreto sono affidate pressoché esclusivamente all'interpretazione di quanto oggi affiora dal sostrato roccioso dell'antica necropoli.

Le diverse cause che hanno determinato questa situazione sono da ricercare, in parte, nel forte pendio della collina che, col tempo, ha indubbiamente favorito lo slittamento a valle delle masse terrose contenenti la parte superficiale della necropoli, coinvolgendo quasi sicuramente, assieme a buona parte dei corredi sepolcrali, anche tutte le opere di contenimento e di delimitazione che la organizzavano. Tuttavia la esasperante frammentarietà dei reperti e la sistematica totale assenza del corredo anche in quelle tombe che risultano scavate nella roccia per diverse decine di centimetri trovano adeguata giustificazione solo nel presupposto che l'area della necropoli sia stata oggetto di tutta una serie di manipolazioni antiche e recenti. Se le ultime sicuramente sono da porre in relazione con la presenza della vicina cava e con il richiamo delle notizie dei ritrovamenti hanno sempre esercitato sui curiosi del luogo, le prime appaiono piuttosto legate ad una lontana rivisitazione della necropoli di cui si conservano chiari indizi nelle stratigrafie e che vide la realizzazione di opere murarie di grandi proporzioni in alzato in "opus graticium", per la cui fondazione furono sventrate diverse file di tombe. I corredi di queste, ovviamente ridotti in frammenti, risultano in buona parte reimpiegati nelle opere di drenaggio dei muri.

L'evidenza archeologica non ci consente, allo stato attuale, di stabilire se tali opere siano da porre in relazione con una matura riorganizzazione della necropoli o piuttosto, ipotesi che io ritengo più attendibile, con gli eventi che determinarono o seguitarono la cessazione dell'uso cimiteriale dell'area; resta il fatto che più di un particolare riguardante la tecnica impiegata per la loro realizzazione ne suggerisce una datazione che ben s'inserisce nell'arco cronologico relativo all'ultima fase di vita del sepolcreto, tra la fine del VII e, genericamente, il VI sec. a. C.

Ancora più problematica, per le ragioni sopra enunciate, appare la possibilità di stabilire la reale estensione della necropoli e quali siano stati i criteri che ne determinarono lo sviluppo. L'ipotesi che essa potesse occupare senza interruzione l'intero versante finoltre l'attuale Piazzale L. da Vinci, se non addirittura fin nei pressi della più meridionale delle cime del Monte Morello, appare suggestiva, pur tuttavia a sostenerla non sono sufficienti i ritrovamenti di materiale archeologico, ipoteticamente attribuibile a tombe a pozzetto, che sarebbero stati effettuati da studenti di un' istituto superiore di Sesto Fiorentino nel corso degli anni '70 in località Buca della Neve, lungo il naturale sviluppo verso monte dell'appendice collinare della Castellina. Anche qualora fosse accertata la validità dell'attribuzione, essi potrebbero pur sempre riferirsi ad un episodio avulso dal contesto della necropoli e legato ad un limitato nucleo di tombe correlate ad un piccolo insediamento d'altura.

Va comunque tenuto presente che i due ampi saggi che la S.I.A.M. ha aperto nel corso delle ultime cinque campagne di scavo hanno portato alla luce due porzioni di necropoli, distanti tra loro circa duecento metri, nelle quali le tombe appaiono moderatamente ravvicinate fra loro e, allo stesso tempo, disposte secondo un' ordine rispondente a un preciso criterio organico di distribuzione. Di quest'ultimo si dovette tenere conto anche in occasione delle varie riorganizzazioni dell'assetto cimiteriale, dal momento che, in un contesto caratterizzato dalla presenza di pozzetti di piccole e medie proporzioni, ordinatamente disposti in file sfalsate e parallele, si vengono a trovare tombe a pozzo di grande larghezza, profondità e complessità che rivelano aver comportato, all'atto della loro costruzione, la rimozione di preesistenti tombe a pozzetto.

L'attenzione con cui questo disegno venne rispettato, tanto nella prima, più spaziata disposizione, quanto in occasione dei successivi, calcolati reinserimenti, suggerisce l'ipotesi che la necropoli sia stata concepita fin dall'inizio come area di sepoltura comune ad una serie di villaggi dislocati nel territorio circostante che, presumibilmente, avevano iniziato in quel periodo un processo di unificazione in senso protourbano. Il fatto che il reperto più antico fra quelli "datanti", uno spillone in bronzo "a pastorale", si riconduca ad un' orizzonte di metà VIII sec. a.C. potrebbe stare ad indicare che nel periodo precedente, le sepolture avvenissero in aree cimiteriali differenziate e situate in prossimità dei singoli villaggi di pertinenza. La fase più antica della necropoli doveva già vedere un'alternanza di tombe a pozzetto, in cui lo spazio era appena sufficiente ad accogliere il caratteristico cinerario biconico insieme con pochi, semplici oggetti di corredo, e tombe della stessa forma ma di poco più capaci in cui il cinerario biconico doveva essere custodito in uno ziro di non eccelse dimensioni, secondo una formula ampiamente diffusa nell'agro fiorentino-volterrano, come un po' in tutto il territorio dell'Etruria Settentrionale interna, proprio a partire dai decenni centrali dell'VIII sec. a.C.

Per tutte queste tombe si deve ipotizzare che la parte superiore, terragna, fosse rivestita mediante una vera e propria fodera, realizzata con pietre disposte in cerchi sovrammessi, con funzione di arginamento della circostante massa terrosa, secondo una tecnica largamente adottata soprattutto in tutti quei casi i cui le caratteristiche naturali dei terreni o gli elevati gradi di pendenza dei livelli delle necropoli non offrissero le condizioni necessarie a garantire la piena stabilità delle strutture sepolcrali. Molte delle tombe di questa prima fase presentano una caratteristica piuttosto inconsueta: sono composte da due pozzetti "gemelli" posti l'uno accanto all' altro, talora separati soltanto da un sottile diaframma artificiale costituito da bozze di pietra accuratamente giustapposte. Al centro di uno dei saggi esplorativi sono state individuate quattro coppie di quelle tombe, ravvicinate tra loro e ordinatamente disposte in fila. E' stato questo ritrovamento che per la prima volta ci ha fatto pensare alla possibilità che in seno alla necropoli esistessero zone riservate alla fruizione di singole famiglie, villaggi o clan che, sia pure nel generale rispetto delle norme che regolavano la distribuzione dei sepolcri, potessero seppellirvi i loro cari secondo un criterio che tenesse conto dei vincoli di carattere sociale e, soprattutto, familiare che li legavano .

L'ipotesi che ciascuna coppia di tombe potesse contenere i resti dei coniugi sembra trovare conferma nei più recenti ritrovamenti avvenuti nella piana di Sesto Fiorentino e riguardanti due nuclei di tombe a pozzetto presumibilmente connessi con la presenza di piccoli insediamenti o gruppi di capanne. Due delle tombe del nucleo individuato in località Val di Rose presentavano la stessa caratteristica disposizione a forma di "otto" : l'analisi dei reperti ossei appartenenti alle due deposizione ha rilevato che esse contenevano i resti di due individui di sesso opposto. Non è da escludere che a Palastreto questo gruppo di tombe gemellari potesse presentare, sulla superficie della necropoli, un qualche segno di distinzione quale una semplice delimitazione materiale o addirittura un' opera di contenimento che lo isolasse all'interno di una sorta di piazzola o terrazza pianeggiante. L'insolita formula sepolcrale delle strutture gemelle caratterizzò sicuramente anche le fasi successive dell'uso delle necropoli quando, perdurando senza alcuna eccezione appurata il rito incineratorio, si crearono i presupposti per la costruzione di sepolcri di maggiori dimensioni e, per ragioni non ancora del tutto chiarite nella loro complessità, di una almeno parziale riorganizzazione del sepolcreto che comportò la rimozione di strutture del vecchio impianto allo scopo di alloggiarne di nuove.

In questo contesto appare degna di nota la singolare tipologia di due pozzi gemelli, conservati per circa 1/4 della loro altezza originaria; uno di essi appariva privo del piano di base al posto del quale si trovava una larga apertura che dava accesso ad un' altro pozzo sottostante, presumibilmente delle stesse proporzioni, interamente ricavato nella roccia. Pur nell'impossibilità di appurare se questa struttura inferiore fosse destinata ad ospitare una deposizione o, piuttosto, a nascondere e proteggere un eventuale, ricco corredo della tomba sovrastante, dobbiamo prendere atto del fatto che una soluzione del genere è piuttosto inconsueta in Etruria: l'unica attestazione di tombe simili, intenzionalmente sovrapposte, è segnalata nel caso di due pozzetti risalenti alla metà del VII sec. a.C. rinvenuti nella necropoli vetuloniese di Poggio alla Guardia. I confronti con li mondo e la cultura di Vetulonia non possono essere attribuiti alla pura occasionalità: basti pensare che durante la matura fase della vita della necropoli di Palastreto vennero costruite da famiglie eminenti, proprio ai piedi della collina, le grandi tombe a "tholos" della Mula e della Montagnola, architettonicamente vicinissime ad alcune tra le più illustri tombe orientalizzanti vetuloniesi quali quelle del Diavolino e della Pietrera. I rapporti tra i due centri, situati lungo un itinerario che metteva in comunicazione, proprio tramite il grande polo industriale e minerario di Vetulonia, l' Etruria meridionale con l'Europa, dovettero essere intensissimi fin dall' età più antica ed i vincoli che legavano le rispettive, nascenti aristocrazie dovettero rinsaldarsi costantemente con scambi e donazioni reciproche: la depressione di forma concava sulla superficie superiore del grande sostegno cilindrico in pietra serena rinvenuto nella tholos della Montagnola sembra fatta apposta per alloggiarvi uno dei grandi lebeti di lamina bronzea che si producevano a Vetulonia; l'imponenza del sostegno doveva esaltarne la funzione di prestigioso e significante oggetto di corredo se non, addirittura, di eccentrica e distintissima urna cineraria.

All'interno del più ampio dei due saggi aperti dalla S.I.A.M. è stata infine rinvenuta una serie di pozzi di dimensioni eccezionali; di questi solo due erano organizzati in forma gemellare, mentre gli altri apparivano distinti e distanziati tra loro. Queste strutture hanno fornito chiari indizi circa la presenza di un rivestimento in bozze di pietra che doveva foderare almeno in parte, allo scopo di regolarizzarne la forma e di costituire un valido supporto per la caratteristica fodera superiore, anche la porzione inferiore, ricavata nella roccia per oltre un metro, delle tombe. Nonostante questo espediente che ne riduceva la capacità, si può ipotizzare che lo spazio a disposizione della sepoltura  presentasse, relativamente alla parte più profonda, un diametro non inferiore al metro e venti centimetri. Una in particolare di queste tombe si distingue dalle altre per la grande profondità (oltre m. 1,50 a partire dal livello roccioso) e per l'insolita forma quadrangolare dell'impianto. Che la forma sia dovuta ad un fattore intenzionale ben lo dimostrano le evidenti tracce di un'accurata lavorazione a scalpello sulle pareti.

Al momento dell'esplorazione avanzammo l'ipotesi che la cavità di forma parallelepipeda potesse essere originariamente rivestita da lastre di pietra poste per taglio, lungo le pareti, ed in orizzontale sul fondo ed a copertura di quella che doveva apparire come una sorta di custodia a cassone posta presumibilmente alla base di un pozzo più o meno profondo. L'idea ci era suggerita da una serie di confronti tra i quali il più immediato e certamente il più calzante appariva quello con la celebre tomba a cassone rinvenuta nella necropoli di badia a Volterra nel 1885 ed esposta nel locale Museo Archeologico. Oggi la nostra ipotesi ricostruttiva sembra trovare riscontro nei ritrovamenti di poco precedenti e di pochissimo posteriori al nostro, dei quali si è avuto, di recente, il conforto della pubblicazione. La tomba a cassone "A" della necropoli di Casa Nocera presso Casalmarittimo e la grande tomba a pozzo con cassone di pietra arenaria del tumulo "B" della necropoli di Prato di Rosello ad Artimino. Entrambe le tombe si ricollegano ad un'orizzonte culturale vicino a quello che interessò i decenni del pieno sviluppo della necropoli di Palastreto, venendosi la prima a trovare su uno degli sbocchi verso la costa tirrenica di quell' "Ager Volaterranus" la cui influenza si fece sentire sempre fortissima nel territorio fiorentino in cui si inserisce di diritto, insieme alla nostra , la necropoli di Prato di Rosello. Proprio la tomba artiminese è, tra queste, l'unica che abbia conservato, fino al momento della scoperta, la sua piena integrità strutturale; la presenza stessa del pozzo superiore per le altre può essere ritenuta molto probabile, ma non data per certa. In particolare nel nostro caso il pozzo doveva presentare dimensioni sensibilmente più ridotte sia nel senso della profondità che in quello dell'apertura a causa della distanza non rilevante che separava la tomba da almeno un'altra coeva.

Anche le dimensioni della tomba di Palastreto, con i lati del cassone che non dovevano superare il metro e venti centimetri di lunghezza, risultano decisamente inferiori a quelle della tomba di Prato di Rosello e contribuiscono ad avvicinarla agli esemplari volterrani. Purtroppo anche il più piccolo elemento pertinente al corredo della tomba che ci permettesse di stabilirne la datazione è andato disperso. Ad ogni buon conto, anche se i corredi delle altre tombe affini suggeriscono, in via del tutto ipotetica, per la nostra, una datazione che oscilla tra i decenni finali del VIII e i primi anni del VII sec. a.C.  niente vieta di pensare che la tipologia della struttura di questi sepolcri, come si è già constatato nel caso delle tombe gemellari, abbia potuto protrarsi, a Palastreto, anche ai periodi successivi. D'altra parte, nel materiale ceramico recuperato durante le ultime campagne ed attualmente in corso di studio è molto alta la percentuale di frammenti pertinenti a manufatti prodotti per tutto l'arco del VII e per buona parte del VI sec. a.C., soprattutto buccheri della, produzione "sottile", quali kantharoi, kyathoi e tazze spesso decorati ad incisione ed a stampiglia, e "transizionale": calici e kantharoi canonici su basso piede.

Probabile appare in tal senso la larga presenza di pareti e labbri di grandi ziri, con la superficie decorata mediante sottili costolature e piatte fasce orizzontali a rilievo, del tutto affini a quelle presenti in alcuni dei più significativi contesti orientalizzanti del territorio, quali la Tomba cosiddetta dell'Arciere di S. Angelo a Bibbione e la stessa Tomba della Montagnola: infatti questi grossi, caratteristici contenitori, potevano trovare alloggio, nella necropoli di Palastreto, solo in pozzi di adeguate dimensioni. Il fatto che ziri cinerari della stessa tipologia siano stati adottati in strutture sepolcrali dalle caratteristiche così sostanzialmente diverse ci induce ad una riflessione. Pur considerando che la gente che seppelliva a Palastreto nel cuore del VII sec. a.C. godeva indubbiamente di un certo benessere - come confermerebbero le numerose presenze, tra i materiali attribuibili ai corredi di quel periodo, di vasi da vino, elemento che, secondo l'opinione oggi universalmente accettata, era allora segno di forte distinzione sociale - sappiamo che ben diversi dovevano essere i ruoli ed il tenore di vita delle famiglie cui facevano capo le grandi tombe gentilizie. In particolare lo sfarzo e la disponibilità di materiale esotico che si riflettono nei corredi di queste ultime sembrano essere sconosciuti a quelli delle tombe a pozzo orientalizzanti; basti pensare che, tra i materiali recuperati a Palatreto non si segnala neanche la più piccola traccia di lamina d'oro o d'argento, né un sia pur piccolo frammento d'avorio di cui si ha invece ragione di ipotizzare, nei grandi ipogei del territorio una ricchezza che non avrebbe riscontro in Etruria.

Eppure nonostante queste rimarchevoli forme di distinzione, rese ancor più evidenti dalla diversa monumentalità dei due tipi di sepolcri, ci troviamo oggi nella condizione di constatare come, di fronte alla semplicità del rito di sepoltura, tradizionalmente, rigorosamente crematorio, comune in entrambi i casi e di fronte all'essenzialità degli strumenti attraverso i quali questa ritualità materialmente si esprime, gli stessi grandi ziri cinerari, tali distinzioni vengono completamente a cadere; segno evidente di come i nostri antenati avvertissero nell'ineluttabile essenza della morte, una volta scevrata da tutti gli orpelli che avrebbero voluto tenerla ancorata a concezioni e valori puramente terreni, qualcosa che, trascendendo il prestigio individuale e l'orgoglio delle famiglie e dei clan, avvicinasse gli uomini in un unico comune destino.


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